LE INTERVISTE IMMAGINARIE ALLE DONNE DI SCIENZA A CURA DI FRANCESCA FRASSINO

Una coltre di neve imbianca la città, le smussa gli angoli e le regala un fascino silenzioso.

Ad osservare i fiocchi cadere lentamente, il tempo sembra rallentare e – sedute sul muretto del terrazzo – io ed Esther Lederberg diventiamo parte dello scenario mentre lei comincia a raccontare la sua storia di ricerca e rivalsa.

È un’esperta di genetica microbica il cui lavoro è stato fondamentale per avere adesso le conoscenze necessarie a capire e superare fenomeni come quello attuale.

Mi dice di essere nata nel Bronx nel 1922 e di aver frequentato corsi di biochimica durante gli anni delle scuole superiori e di genetica all’università, lottando contro i pregiudizi di una società che vedeva queste facoltà solo adatte all’universo maschile.

Riuscì a studiare genetica all’ Università di Standford grazie ad una borsa di studio che, però, non le bastava per vivere e dovette, quindi, anche lavorare come assistente di laboratorio. Mi dice anche che, certe volte, non aveva nulla da mangiare per cena se non le gambe delle rane che sezionava durante il giorno. Dal suo sguardo rivolto verso il cielo, capisco che questo dettaglio è una confidenza.

La neve ci cade sui cappotti e lei continua a raccontarsi con un sorriso pieno di luce, parlandomi dei suoi studi sulla Neurospora a partire dagli anni della laurea – una muffa del pane, è costretta a spiegare dato il mio sguardo interrogativo – per poi concentrarsi sui processi di mutazione genetica nei batteri Escherichia Coli durante il dottorato all’Università del Wisconsin.

Durante quegli anni scoprì il fago lambda, cioè un virus che infetta gli enterobatteri, che adesso è un importante strumento nel campo della microbiologia per lo studio della biologia di altri virus, anche animali, ma anche per lo studio dei processi di trasduzione nei batteri, ovvero quel processo di trasferimento di sequenze genetiche nei batteri ad opera di particelle virali. Inoltre, fu il primo virus abbastanza complesso che venne studiato a livello molecolare e lei – con il suo instancabile lavoro in laboratorio – riuscì a capire che il processo di replicazione del virus all’interno del batterio è aiutato da un mediatore chiamato “Fattore F”.

Mi dice di aver incontrato a Standford l’uomo che divenne suo collega negli esperimenti di genetica ma anche suo marito. Insieme fecero molte scoperte importanti sulla genetica dei batteri e nel ’52 i coniugi Lederberg inventarono la tecnica del replica plating – una tecnica che permette di replicare colonie batteriche – con la quale riuscirono a dimostrare per la prima volta che la resistenza agli antibiotici da parte dei batteri è già presente nelle colonie e non si sviluppa a seguito di una continua esposizione. Inoltre, con questa tecnica, riuscirono a dimostrare che le mutazioni genetiche avvengono casualmente e non per necessità. La tecnica del replica plating è diventata, poi, di uso comune nei laboratori.

Per lo studio della genetica dei batteri Esther e Joshua Lederberg ricevettero il Premio Pasteur nel ‘56. Due anni più tardi, suo marito e i suoi colleghi Beadle e Tatum, ricevettero il Premio Nobel per la medicina per la scoperta del ruolo dei geni nella regolazione degli eventi biochimici all’interno della cellula.

Mi dice di essere stata invitata alla cerimonia di premiazione come moglie del candidato, che fece solo un accenno al lavoro propedeutico svolto in laboratorio dalla moglie. “Non avevo né tempo né denaro da spendere per trovare l’abito giusto e che rispettasse anche le regole del protocollo della cerimonia!” afferma ridendo di gusto.

Le dico di essermi imbattuta nel sito internet che il suo secondo marito, un ingegnere di Standford sposato all’età di settant’anni, ha creato in suo onore perché il suo lavoro di laboratorio e le sue scoperte vengano ricordate dalle generazioni future. Ma soprattutto per far conoscere al mondo la scienziata Esther Lederberg e non la moglie del premio Nobel. Quel sito è un archivio delle sue foto, dei suoi articoli, del suo lavoro e delle sue passioni, dalla musica alla fotografia; tutto è accompagnato da una melodia che mette allegria. Mi dice che è musica medioevale, la sua preferita. Le piaceva la musica e le piaceva suonarla.

Per molti anni, nonostante il suo curriculum, ha dovuto battersi per far sì che le sue competenze e quelle delle sue colleghe venissero riconosciute, per non essere più costrette ad accettare posti di lavoro non conformanti alle qualifiche ottenute con duro lavoro e dedizione.

Le cose hanno iniziato a muoversi negli anni ’70, quando venne nominata curatrice della collezione di plasmidi dell’Università di Standford e poi direttrice del relativo Plasmid Reference Centre. Continuò a lavorare in laboratorio sui plasmidi anche in età avanzata.

La sua vitalità contagiosa ha reso meno rigida e buia la notte ma ora ha smesso di nevicare, la temperatura si è abbassata e io sento di avere il naso congelato. Nel frattempo, qualche luce si accende nelle abitazioni vicine e si intravedono i colori dell’alba. Assaporo la soddisfazione di aver imparato qualcosa e di aver dato voce ad una personalità tanto interessante quanto sconosciuta a molti.

Vuoi saperne di più? Scopri le fonti!

1. Esther M. Zimmer Lederberg Memorial Website

2.  Esther Lederberg, The Guardian

3. Professor Esther Lederberg, What is biotechnology?

4.  Ferrell R. 2018. Esther Miriam Zimmer Lederberg: Pioneer in Microbial Genetics, p 305-315. In Whitaker R, Barton H (ed), Women in Microbiology. ASM Press, Washington, DC.

5. Katy Steinmetz, “Esther Lederberg and Her Husband Were Both Trailblazing Scientists. Why Have More People Heard of Him?”, Time

Francesca Frassino
Francesca Frassino

Laureata in chimica, considero la scienza l’espressione massima del genere umano e mi piace raccontarla. Appassionata di biografie per la sensazione che resta quando si concludono: aver vissuto in ogni epoca e in ogni strada ed aver creato un legame con il personaggio di turno. Per questo scrivo storie in prima persona.
L’espressione che maggiormente mi rappresenta è: “Sono io Paperino!”

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