La chimica tedesca ad un passo dalla gloria (forse!)

a cura di Francesca Frassino

Le sere di settembre suggeriscono dolcemente il sopraggiungere dell’autunno, con la bellezza dei colori del paesaggio che variano, i suoni che si affievoliscono, le abitudini che cambiano. Una lieve brezza scuote delicatamente i leggeri rami dei pochi e deboli alberi attorno a me, mentre osservo il tramonto sorseggiando un caffè vecchio di qualche ora.  Le grida gioiose dei bambini del quartiere, che cercano di rubare ai genitori qualche altro minuto da dedicare al gioco, sovrastano ogni altro rumore.

Il passaggio dalla luce rosata del tramonto al buio della sera è quasi repentino; domina, adesso, il bianco dei lampioni lungo le strade che mi circondano. Le nuvole sfumano attorno alla luna, lasciandola intravedere in tutta la sua rotonda perfezione. Quest’atmosfera settembrina sembra essere la più adatta per imbattermi nella vita della chimica tedesca Ida Noddack, per conoscerla e capire un po’ della sua storia e del suo lavoro. Non lo faccio per il desiderio di darle giustizia ma per aggiungere un tassello importante nella storia della fisica moderna.

Di Ida Noddack mi colpiscono la sua postura dritta e il suo sguardo fisso e fiero perché mi trasmettono rigidità e rigore. Anche la città in cui siamo immerse sembra essersi accorta della sua presenza, silenziando ogni rumore in eccesso. Con la schiena rivolta alla luna, si appoggia lentamente con entrambi i gomiti alla ringhiera e, guardandomi, inizia a raccontarmi dei suoi inizi, della laurea e del dottorato in chimica organica al politecnico di Berlino nel 1921 e del suo essere diventata la prima donna assunta come chimico nell’industria tedesca prima di iniziare, nel 1924, la carriera come ricercatrice affianco al chimico Walter Noddack – che diventerà suo marito e da cui prenderà il cognome. Il suo vero cognome, precisa, è Tacke.

Mentre appoggio la mia tazza a terra, ormai macchiata di caffè ovunque, mi siedo appoggiando le spalle al muro; guardo dal basso questa donna inflessibile che, nel frattempo, si è voltata verso la strada. Lascio passare volontariamente alcuni minuti di silenzio prima di chiederle del rapporto con il marito perché avevo letto di un’unione sentimentale molto forte e di un rapporto lavorativo paritario e di fiducia reciproca, cosa non scontata visto il periodo in cui a molte donne non era permesso entrare nei laboratori o gestire progetti di ricerca.

Ida mi guarda, sorride leggermente, sussurrando semplicemente: “eravamo un team!”.

Ricambio il sorriso con un’espressione imbarazzata e abbandono quel campo scivoloso. Lei continua a parlare dello splendido rapporto che avevano i due nel loro laboratorio e della scoperta, nel 1925, dell’elemento con numero atomico (il numero di protoni presenti nel nucleo) 75 che chiamarono Renio, per onorare le origini di Ida ovvero la regione Renania, a valle del fiume Reno. Torna a guardarmi e, con un entusiasmo che non m’aspettavo, inizia a raccontarmi di come si è arrivati alla scoperta del Renio: mi spiega i primi tentativi del bombardamento di minerali del platino e della columbite con elettroni; questi, infatti, collidono con i nuclei atomici ed emettono raggi X; quindi, dall’analisi dello spettro dei raggi X emessi si può risalire al numero atomico dell’elemento. Con la spettroscopia potevano, perciò, farsi di un’idea degli elementi presenti nel minerale in esame. Dopo aver compreso questo passaggio, spiega, impiegarono tre anni per isolare 1 grammo di Renio da 660 kg di Renio-Molibdenite, cioè un minerale di solfuro di Molibdeno ricco di Renio.

Mi piacciono i suoi occhi che brillano mentre racconta questa storia.

Mi dice che per la scoperta del Renio, ma anche del Masurio – adesso conosciuto come Tecnezio, l’elemento con numero atomico 43, isolato successivamente dal fisico Emilio Segrè – che però non riuscirono ad isolare, lei e il suo team vennero candidati al Premio Nobel per la Chimica diverse volte senza mai vincerlo. Però, per la scoperta del Renio, le fu conferita la Medaglia Liebig nel ’34.

Siamo arrivate al 1934, le dico rialzandomi da terra un po’ incriccata. Non saprei dire se la sua notorietà nel mondo accademico scientifico sia legata alla scoperta del Renio o alla sua intuizione geniale e antesignana della fissione nucleare. Osservandola cercando in tutti modi di non sembrare invadente, le faccio capire che può prendersi tutto il tempo che le serve per trovare la forza, la voglia e le parole per raccontare quella storia che, secondo me, rappresenta l’unione esemplare tra genio e indifferenza, fiducia nella comunità scientifica e muri invalicabili.

Inizia a farsi sentire un’arietta un po’ più fredda e prepotente rispetto a quella a cui ci eravamo abituate. La notte è giunta al suo momento più buio e taciturno; le nostri voci, adesso sussurrate senza un reale motivo, sono gli unici suoni di queste ore. E così, dopo un lungo sospiro e lo sguardo rivolto alla luna, Ida Noddack comincia lentamente a parlarmi di quella volta in cui, con un articolo scientifico pubblicato su una rivista di settore tedesca, critica il metodo di Fermi utilizzato per generare elementi transuranici. Con quell’articolo, la chimica Ida Noddack ha gettato le basi per la comprensione del processo di fissione nucleare. Peccato, però, che nessuno le abbia dato seguito. “On element 93”, il titolo. Si muove lentamente su e giù sul mio piccolo balcone, credo lo stia facendo per mettere insieme le idee; io, nel mio angolo, aspetto.

Enrico Fermi, in quel periodo, affermava di poter ottenere elementi transuranici – cioè con numero atomico maggiore di 92 (ovvero il numero atomico dell’Uranio) – bombardando l’Uranio con neutroni.  Di contro, Noddack affermava che il bombardamento con neutroni dell’Uranio avrebbe prodotto elementi con numero atomico minore e differente da quello dell’atomo bombardato. Quello che lei scrisse nel ’34 adesso è conosciuto come fissione nucleare: bombardando, cioè, nuclei pesanti (quindi con un numero atomico elevato come l’Uranio e il Torio) con neutroni si ottengono elementi con numero atomico inferiore a quello dell’atomo genitore e altri neutroni che, a loro volta, possono interagire con altri atomi pesanti e provocare altre reazioni di fissione.

Con i capelli disordinati dal vento, la chimica mi osserva, come se fosse in attesa di un mio commento. Perciò le chiedo soltanto se avesse avuto, all’epoca, una vaga idea del perché quella congettura non ebbe alcun impatto sulla comunità scientifica, tanto da essere quasi completamente ignorata. Con una semplicità disarmante mi spiega che quello che lei aveva ipotizzato non era in linea con la fisica di quei tempi: il pensiero scientifico era allineato al modo di pensare di Fermi. In più, continua abbassando per un attimo lo sguardo, dice di non aver inserito prove scientifiche a confermare la sua ipotesi.

Quindi, in una notte di settembre che sta diventando pian piano meno buia, ho di fronte la prima scienziata ad aver ipotizzato la fissione nucleare, quel processo che valse il premio Nobel ad Otto Hanh che – insieme a Lise Meitner, un’altra grande esclusa dai riconoscimenti scientifici – lo realizzò e che rese possibile la costruzione della bomba atomica.

Durante gli anni della Seconda Guerra, continua a raccontare e passeggiare in questo minuscolo spazio, la vita per quelle poche donne che lavoravano diventò ancora più difficile perché l’ordine che era stato dato loro era quello di lasciare quei posti di lavoro disponibili agli uomini, che ne avevano più bisogno. Perché, si sa – aggiungo – la donna deve accudire la casa e la famiglia.

Così, mi dice, molte sue colleghe dovettero abbandonare studi, ricerche, laboratori nelle mani dei loro colleghi. Lei poté continuare le sue ricerche solo perché moglie di uno scienziato quindi aveva pieno accesso al suo laboratorio ma il lavoro non le veniva mai pienamente riconosciuto. Forse, ipotizzo, anche per questo non trovò un vero appoggio da parte del suo team quando presentò la sua ipotesi.

Nel periodo della guerra, lei e suo marito si spostarono inizialmente all’Università di Friburgo dove lui subentro ad un professore ebreo costretto ad abbandonare il suo posto; poi si spostarono all’Università di Strasburgo dove, per la prima volta, lei divenne professoressa a tutti gli effetti con tanto di stipendio. Finita la guerra, Walter fondò un istituto di geochimica e Ida riprese il suo lavoro da ricercatrice… nuovamente senza retribuzione. Le sue ricerche riguardavano i campi della fisica e della geochimica e se ne occupò fino al 1968, anno in cui si ritirò dall’accademia; suo marito morì nel 1960.

Sto per chiederle di quanto ho letto sulla morte del marito: del fatto che lui morì quando lei era lontana e sembra che questo abbia peggiorato di molto le sue condizioni di salute già precarie tanto da provocargli un infarto. Ma non faccio in tempo a mettere insieme i pensieri e a trovare un modo gentile per dirglielo che lei, con un sorriso carico di ironia, mi interrompe indicandomi il sorgere del sole. È giunta l’ora di tornare nel mondo reale e chiudere nel cassetto dei ricordi questa folle notte passata troppo in fretta.

Ci siamo giocate tutto lo spazio a disposizione: il tempo di una notte, per lei, per scavare nelle sue memorie; il tempo di una notte, per me, per comprendere un po’ di più la vita delle donne nella scienza. Ma di cose da raccontare e da farsi raccontare da Ida Noddack, la chimica tedesca che per prima ipotizzò il processo di fissione nucleare, ce ne sarebbero ancora molte.

Recupero la tazzina lasciata in un angolo del balcone; è tempo di mettere su un nuovo caffè.

FRANCESCA FRASSINO
FRANCESCA FRASSINO

Laureata in chimica, considero la scienza l’espressione massima del genere umano e mi piace raccontarla. Appassionata di biografie per la sensazione che resta quando si concludono: aver vissuto in ogni epoca e in ogni strada ed aver creato un legame con il personaggio di turno. Per questo scrivo storie in prima persona.
L’espressione che maggiormente mi rappresenta è: “Sono io Paperino!”

Rispondi