di Irene Griffoni

In sintesi, sì. Un’ottima notizia.

Come afferma Xinyi Zhao, dottoranda in sociologia ad Oxford e leader della ricerca A gender perspective on the global migration of scholars, fare ricerca all’estero e trasferirsi significa fare progressi sul piano della professione e della carriera, cosa che potrebbe ridurre il divario complessivo tra il numero di ricercatori donne e uomini.

Il numero di scienziate che fanno ricerca all’estero ha continuato a salire negli ultimi anni, ma il loro numero totale continua ad essere inferiore rispetto alle controparti maschili. Ma la buona notizia riportata dalla ricerca è che questa differenza si sta riducendo, e lo sta facendo più rapidamente del divario globale tra il numero di scienziate e di scienziati che hanno ottenuto pubblicazioni.

Come riportato dall’articolo di Nature, la mobilità internazionale di scienziati e ricercatori è fondamentale per l’avanzamento di carriera, perché aiuta a espandere le reti professionali, a formare collaborazioni internazionali e a migliorare i propri profili di ricerca. Altri benefici della mobilità comprendono l’accesso a nuove strutture ed attrazzature per la ricerca e l’esposizione a nuove idee, discipline e punti di vista.

I risultati della ricerca

Le autrici e gli autori dello studio pubblicato su PNAS hanno esaminato più di 33 milioni di pubblicazioni presenti su Scopus, un database di riassunti e citazioni per articoli di pubblicazioni riguardanti la ricerca, scegliendo come periodo di studio quello tra il 1998 e il 2017. Hanno identificato il genere dei ricercatori e monitorato i loro movimenti utilizzando i nomi e le affiliazioni istituzionali sulle loro pubblicazioni.

La ricerca di Zhao ha mostrato come durante l’ultima parte del periodo di studio, dal 2013 al 2017, il numero di scienziate che hanno visto le proprie ricerche pubblicate è aumentato di quasi tre volte, passando da 0,7 a 1,7 milioni, rispetto al primo periodo dello studio, dal 1998 al 2002. Si è visto anche un sostanziale aumento delle pubblicazioni di ricerche svolte da uomini, che è passato da 1,5 a 3 milioni, quindi raddoppiando. 

Si sottolinea anche come sia stata trovata una intensità migratoria crescente delle ricercatrici: gli autori hanno infatti anche illustrato come il numero di ricercatrici che si sono trasferite dal proprio paese sia quasi triplicato nel periodo di studio di 19 anni, passando da 29.000 (4,3% di tutte le ricercatrici pubblicate) tra il 1998 e il 2002, a 79.000 (4,6% di tutte le ricercatrici pubblicate) tra il 2013 e il 2017. Al contrario, la popolazione di ricercatori uomini che si sono trasferiti è cresciuta più lentamente; sebbene i numeri dei ricercatori uomini pubblicati siano raddoppiati, la percentuale complessiva è diminuita.

Zhao sostiene che il gender gap nella migrazione per la ricerca potrebbe essere causato dalle minori opportunità che vengono date alle donne di emigrare, come ad esempio la mancanza di programmi che sono progettati per sostenere le donne con famiglie e figli.

Alcune differenza persistono: si è visto come le ricercatrici tendono a migrare su distanze più brevi rispetto alle proprie controparti maschili, e si concentrano su una gamma più ristretta di paesi di destinazione. Gli Stati Uniti continuano ad essere la destinazione più popolare sia per le ricercatrici che per i ricercatori, nonostante l’afflusso di scienziati sia diminuito dal 25% al 20% durante il periodo di studio.

La mobilità di donne e uomini cambia anche in base al paese di provenienza: nel Regno Unito e negli Stati Uniti il numero di ricercatori migranti è superiore rispetto a quello delle ricercatrici, e la disparità maggiore a discapito delle donne è stata vista in Corea del Sud e Pakistan; mentre invece troviamo numeri quasi uguali in Portogallo e Serbia. Heike Jöns, geografa che studia la mobilità accademica presso la Loughborough University, afferma che le scienziate si trasferiscono più spesso in nazioni dove è presente una maggiore parità di genere e politiche migliori per la promozione delle donne nei campi STEM rispetto al proprio paese di origine.

E in Europa?

Anche nell’Unione Europea i ricercatori sembrano essere più mobili delle ricercatrici, come si può vedere dal rapporto di She figures del 2018. La differenza tra la mobilità delle ricercatrici e dei ricercatori nell’UE era di 3,6 punti percentuali a favore degli uomini (25,1% di mobilità per le donne e 28,7 % per gli uomini). Una notizia positiva è che in Italia il tasso è più basso di quello europeo, stando al 1,9%: significa che il divario tra ricercatori e ricercatrici italiani che migrano all’estero è più basso rispetto alla media europea.

Il rapporto She figures del 2021 ha illustrato come tra i ricercatori con famiglia e figli, più donne che uomini lavorano con contratti precari (7,2% di donne e 4,4% di uomini). Questi dati suggeriscono che le differenza di genere nelle condizioni di lavoro potrebbero essere correlate a responsabilità di lavoro di cura disuguali. Il presupposto viene confermato dal fatto che tra i ricercatori senza figli la differenza di percentuali di lavoratori sotto contratti precari è quasi nulla (10,5% di donne e 11,1% di uomini), e i numeri arrivano addirittura a copovolgersi quando si osservano ricercatori che sono single, sia con figli che senza. Infatti, quando si osservano i ricercatori single, una proporzione maggiore di uomini, sia con figli (6,4% di uomini e 1,2% di donne) che non (18,4% di uomini e 13,8% di donne), lavora sotto contratti precari rispetto alle ricercatrici donne single.

Uno sguardo al futuro

Si è più volte affermato in questo articolo di quanto sia positiva l’esperienza internazionale per i ricercatori e per gli scienziati in generale, perciò, per dare pari opportunità alle persone nei campi STEM, sono necessari programmi progettati appositamente per questo.

Servizi di integrazione e sostegno per le famiglie sono fondamentali, di modo che il lavoro di cura non cada tutto sulle spalle delle donne, limitando così le loro possibilità di ottenere in primis un grado di istruzione superiore, ma anche di poter avanzare di livello per quanto riguarda le proprie carriere professionali.

I risultati ottenuti dallo studio dell’università di Oxford sono positivi, ma il il gender gap tra ricercatori e lavoratori, e ricercatrici e lavoratrici all’estero continua ad esistere. Questo è dunque un tema di primaria importanza, che va affrontato sia a livello statale che internazionale, per far sì che ci si mobiliti per creare una vera e propria parità di opportunità, nei campi STEM e ovunque.

Fonti:

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