DI FRANCESCA FRASSINO

Una birra che schiuma sul tavolo, le mie gambe distese con i piedi appoggiati al muretto del terrazzo. La luna pallida, il vento a tratti prepotente e a tratti mansueto. Quanta fortuna c’è nel potersi godere il niente, senza dover preoccuparsi della notte e del domani.
Nel più totale silenzio di una notte di primavera, un tacchettio sembra farsi sempre più vicino; la figura esile ed eternamente giovane di Carolyn Beatrice Parker fa capolino dalle scale, una mano che segue delicatamente la ringhiera e mi si avvicina.
Con un sorriso affabile, la schiena appoggiata al muro, mi racconta di essere stata una fisica e di aver studiato in Florida negli anni ‘30.

Carolyn Beatrice Parker fa parte di quel misero gruppo di scienziati afroamericani impiegati nel progetto Manhattan. Nata in una famiglia in cui l’educazione era considerata essenziale, era l’unico modo per essere veramente liberi in una Florida segregazionista – dice. Nel 1934 scelse di iscriversi alla facoltà di fisica dell’università di Fisk per uscirne, quattro anni dopo, laureata con lode. Dopo aver conseguito la specialistica in matematica ed aver iniziato una carriera da insegnante, viene scelta per prendere parte al progetto Manhattan. E non mancarono anche lì, dove ogni sede pullulava di menti brillanti e titoli altissimi, episodi di razzismo e di sessismo – precisa.

Il Dayton project – mi spiega – era una costola del progetto Manhattan; a Dayton ci si occupava della purificazione del Polonio e del Plutonio da usare come iniziatori delle reazioni a catena di fissione nucleare caratteristiche della bomba atomica.

Eravamo tutti molto giovani, a lavorare a quel progetto top secret – continua.
Il suo compito consisteva nella purificazione del Polonio, con l’obiettivo di mettere a punto in breve tempo il metodo con la più alta resa possibile.
In sostanza- dice mentre si siede sull’umido tavolino bianco, mantenendosi la gonna con una mano – le particelle alfa emesse dal Polonio andavano a collidere con i nuclei di Berillio liberando neutroni che innescavano una reazione nucleare a catena. Nei laboratori di Dayton s’è fatta tanta ricerca su come ottenere e purificare il Polonio ma all’inizio del progetto nessuno era a conoscenza dei suoi effetti sul corpo umano. Le particelle alfa emesse vengono facilmente fermate dai vestiti e dalla pelle ma può risultare estremamente tossico se ingerito o inalato.
Dopo la fine della guerra, alcune unità che avevano sede a Dayton subirono processi di decontaminazione; in altre, come l’Unità IV dove lavorava Carolyn Beatrice Parker, la decontaminazione parve non bastare e quindi vennero distrutte. E mentre lei continua a presentarmi i possibili effetti tossici del Po-210 su cui loro lavoravano e i monitoraggi a cui gli scienziati della sua unità erano sottoposti, mi tornano facilmente alla mente i fatti di cronaca recente di giornalisti e oppositori del governo russo vittime di avvelenamento da Polonio.
Nonostante la fine della Germania nazista sembrava fosse vicina, nei laboratori di Dayton c’era una certa pressione affinché tutto il lavoro venisse svolto più in fretta in modo da rispettare una certa data di scadenza: luglio 1945. Non sapevamo cosa ci fosse in ballo – sostiene alzando gli occhi verso il blu. E mi descrive lo stupore negli occhi delle colleghe mentre leggevano i titoli dei giornali di quel 6 agosto del ‘45, sorseggiando caffè come fosse un giorno qualsiasi.

Al termine della sua esperienza come ricercatrice per il progetto Manhattan, tornò alla sua carriera da insegnante e ne iniziò una da assistente ricercatrice all’ Università di Fisk.
Da professoressa alla Fisk University a dottoranda al MIT c’è passata perché sentiva che insegnare non le bastava più; così nel ‘51 prese prima la specialista in fisica al MIT per poi iniziare il dottorato di ricerca, senza riuscire a difendere la sua tesi. Non c’è stato abbastanza tempo, dice abbassando lo sguardo per guardarsi le scarpe eleganti.
In quest’attimo di delicato silenzio penso che forse dalla sua storia si dovrebbe imparare anche a riconoscere ed accettare le situazioni che stanno strette, quelle che non danno soddisfazione, e provare a cambiare la rotta senza perdere troppo tempo perché, a volte, semplicemente il tempo potrebbe non bastare.

Carolyn Beatrice Parker, una fisica promettente e con un curriculum importante, è morta di leucemia a 48 anni, la cui insorgenza è probabilmente correlata all’esposizione alle radiazioni durante il suo lavoro a Dayton. Le dico, infatti, che solo nel 2008 la leucemia venne inserita tra le malattie correlate all’utilizzo del Polonio.
Nonostante la sua breve storia, il suo contributo alla scienza non viene messo in discussione e le iniziative per far conoscere la sua storia sono sempre più rumorose. Le mostro quella che io reputo il modo migliore per non essere dimenticata: l’istituzione di una borsa di studio che porta il suo nome, riservata a studenti afroamericani con un background in fisica e in ingegneria, con l’obiettivo di migliorare l’integrazione delle minoranze nel campo delle materie STEM. Dall’espressione commossa e soddisfatta sembra che l’iniziativa del Fermilab le sia piaciuta.
A Dayton, Carolyn Beatrice Parker – senza saperlo – ha contribuito a creare quella che fu definita dal chimico coordinatore del progetto “un’arma creata dall’uomo in grado di distruggere se stesso e l’intera civiltà.” Spesso si è parlato della bomba atomica come un’arma in grado di prevenire altre guerre ma, con l’ennesima guerra alle porte dell’Europa e una minaccia nucleare a giorni alterni, la fragilità di questo controsenso mi sembra sempre più evidente…

Rimettendo i piedi a terra, mi concedo l’ultimo sorso di birra prima di vedere perdersi nella luce sempre più chiara dell’alba la figura distinta della fisica afroamericana.

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Fonte immagine:
History and Philosophy of Physics,a forum of the American physical society; Vol XV, n°1, Fall 2021

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