di Nicole Ticchi
Scena 1.
La realtà per cui lavorate partecipa ad una fiera e voi sarete impegnate per tutte le giornate nel presidio dello stand. Voi vi occupate della comunicazione: gestite i materiali, la grafica, contribuite all’allestimento e rimanete per buona parte del tempo disponibili a dare informazioni ai visitatori che, passando di lì, si chiedono e chiedono a voi cosa facciate di bello. Che già spiegarlo non è facile, ma è il vostro lavoro quindi sapete cosa dire.
Scena 2.
“Quindi chi devo contattare per avere informazioni? Lei lavora per loro o è qui allo stand solo per la fiera?”
Cosa è successo nell’intervallo tra queste due scene?
La risposta si può riassumere molto facilmente: ricerca di una figura autorevole, che non siete voi.
Per motivi di vario tipo, chi è davanti a voi ha probabilmente fatto i conti secondo una sua matematica personale e il risultato che ottiene non è lo stesso che torna a voi. La probabilità che ai suoi occhi voi siate passate come la hostess di turno (nulla contro le hostess) è molto elevata, così come la probabilità che vi siate chieste cosa mai, di voi, glielo abbia fatto pensare.
La parte più preoccupante, però, arriva dopo.
“Hai risposto a tono?”
Viene subito dopo la domanda “com’eri vestita” e rappresenta la seconda parte dell’esame da sostenere per capire se hai agito in maniera corretta. Tu, non loro. Perché a quanto pare, se non rispondi veloce e a tono, possibilmente con una bella stoccata d’effetto, un po’ sei complice anche tu. Poco, ma lo sei.
Quindi ripetiamo:
- vestita bene, ma non troppo
- bella presenza, sì, ma possibilmente neutra
- sorridente, ma con la risposta in canna
- autorevole, ma non respingente
- empatica, ma distante
- rilassata, ma pronta a scattare
A casa mia, tutto questo corrisponde ad un carico di lavoro che non sono pagata per fare e che nessuno mi ha assunta per fare, soprattutto. Dovremmo farlo rientrare quindi in quella percentuale di lavoro non pagato che solitamente è compresa sotto il cappello del caregiving o creiamo una nuova sezione a parte?
Affinché occasioni di riflessione come queste non vadano sprecate e siano invece un modo per raccogliere pensieri e modi di non-fare, ho deciso di spiegare ancora una volta perché la narrazione della “risposta pronta” è una pratica che mi piace poco e perché credo che sia, oltretutto, poco virtuosa. Non il fatto di dare una risposta in sé, ma la presunzione per cui chi subisce un commento come quello sopra debba anche sentirsi in dovere di avere la stoccata pret-a-porter.
Partiamo dal presupposto che la consapevolezza degli stereotipi grava sempre sulle donne, in ogni momento, soprattutto in determinati contesti. La preoccupazione di come vestirmi per sembrare professionale senza sacrificare la mia comodità, il sentirmi a mio agio e il mio personale gusto ce l’ho avuta io, prima di andare in fiera; dubito fortemente che il mio collega, che con lo stesso vestito in giacca e cravatta va ovunque, si sia posto lo stesso problema. Dubito fortemente che gli sia mai venuto in mente di chiedersi se qualcuno lo prenderà sul serio, quel giorno, e se si chiederà che ruolo ha in quel contesto.
Ma andiamo avanti.
Viene da sé che, se il mio cervello è occupato a pensare a queste cose, la serenità e la concentrazione lavorativa ne risentono. Ma anche la percezione della mia utilità in quel contesto. Se una persona (uomo o donna non fa differenza) su tre, vedendomi, mi chiede solo se può prendere la brochure e quando può passare nuovamente a parlare con un responsabile, viene da chiedersi cosa ci stia a fare io lì davanti.
Qui siamo ancora al livello in cui non ho aperto bocca, ha fatto tutto la vista. E la vista dice che non sono abbastanza autorevole per ricoprire un ruolo sufficiente a dare informazioni esaustive.
Al livello successivo, quello in cui qualcuno mi da effettivamente modo di parlare e proferire almeno un “buongiorno”, secondo la narrazione della “risposta pronta” dovrei essere reattiva e prevedere che qualcuno prima o poi, in qualche momento non meglio definito, si rivolga a me con una domanda non pertinente.
Qui però entra in gioco una questione educativa e di percezione di cosa, socialmente, consideriamo sbagliato e giusto.
Se la persona davanti a voi improvvisamente, nel mezzo di un discorso, infilasse una parolaccia o tirasse una bestemmia, come rimarreste? L’educazione che ci è stata impartita ci dice che un comportamento del genere sarebbe inaccettabile e che certe cose non si fanno. Punto. Non c’è molto da discutere.
Motivo per cui, io in primis, rimarrei spiazzata di fronte ad un’uscita del genere e non avrei assolutamente la risposta pronta, men che meno la stoccata.
Perchè per una frase sessista come quella che mi toglie competenze per il mio aspetto fisico o per il solo fatto di essere donna, dovrebbe essere diverso? Perché dovrei aspettarmela e avere il colpo pronto in canna? Perché non può essere considerata maleducazione al punto tale da spostare l’attenzione su chi ha fatto quella domanda e non su di me che non ho risposto prontamente?
Le risposte piccate e pungenti che si potevano dare sono innumerevoli, col senno di poi. Ma è proprio il “senno di poi” che non si sposa bene con il concetto di “risposta pronta”.
Le risposte pronte sono le cosiddette FAQ (frequently asked questions): vanno bene su un sito web di informazione per i cittadini, per un servizio clienti o per – quello sì – le attività lavorative che svolgo e che sono pagata per divulgare quando sono a quello stand. Non vanno bene per una persona.
Non sono pagata per dare risposte pronte su di me, sono pagata per dare risposte pronte sul mio lavoro.
Spostare il fuoco della scena sulla responsabilità che abbiamo, come donne, di essere pronte a difenderci e a far capire quanto siamo forti, combattive e sul pezzo è l’ennesimo carico di lavoro non pagato ed estenuante che ci si aspetta da noi come prezzo per voler stare in certi contesti.
Vestiti più mascolina, truccati di meno, stai pronta a difenderti. In guerra no, non ci dobbiamo andare? A questo punto me lo aspetto…
Abbiamo insegnato alle persone un sacco di cose su come ci si comporta con gli altri, sulle parole da non dire, sulle espressioni da non usare, sulle gaffe da non fare. Ci siamo abituati a considerarle maleducate nel momento in cui queste regole sociali non vengono rispettate e ad indirizzare le critiche a loro che sono forieri di questa maleducazione. Perché non può avvenire anche con le frasi stereotipate? Perché deve essere mia la responsabilità di educarle e di passare per poco combattiva se non sono pronta a difendermi sull’attenti con una frase d’effetto?
Di lavoro da fare ce n’è tanto su questo tema della percezione e tutt* noi possiamo assumere un ruolo in questo. Non commettiamo l’errore di pensare che siano solo le donne a dover difendere se stesse in casi come questi, come fosse un fatto che riguarda solo loro e, come tale, richiede solo il loro intervento.
(tratto da una storia tristemente e recentemente vissuta)