Stiamo vivendo un momento inaspettato e pregno di emozioni contrastanti, da almeno un mese a questa parte.
Una buona parte di noi, per circostanze fortunate e grazie a tutto il lavoro sporco fatto da altri decenni addietro, non aveva mai dovuto affrontare prima d’ora situazioni che potessero limitare anche solo minimamente la propria libertà.
E invece eccoci qui, a fare i conti con i metri quadri di casa nostra, più o meno abbondanti a seconda dei casi, a contare gli angoli delle stanze, le piastrelle del pavimento, a scoprire quanto è bella o brutta la tonalità di colore che abbiamo scelto per la parete svariati anni fa.
Siamo qui a fare i conti con noi stessi, quelle personcine che, come dice Arianna Safonov, più di ogni altro essere vivente fatichiamo a sopportare. Facciamo i conti con chi divide, se c’è, quei tanti, troppi o troppo pochi metri quadrati con noi.
Ripercorriamo con la memoria gli anni passati, rendendoci conto di aver accumulato in un solo mese più ore di permanenza in casa di quante non ne avremmo mai passate in svariati mesi, nella pura e scontata normalità cui eravamo abituati. E che, probabilmente, faticheremo a raggiungere di nuovo nel futuro prossimo.
Diventa facile, fin troppo, in momenti di smarrimento come questi, cedere alla tentazione di guardare nelle case degli altri. E non solo perché la tecnologia, purtroppo o per fortuna, ci ha fatto imparare a memoria tutti i titoli dei libri presenti sugli scaffali o quanto sono brutti i quadri appesi alle spalle del nostro malcapitato interlocutore al di là dello schermo. C’è qualcos’altro con cui dobbiamo fare i conti: la ridotta capacità di metterci nei panni degli altri. Già.
Perché se è vero che l’arte del taglio e cucito si impara a bottega dagli specialisti dello stile, quella della sartoria emotiva, ovvero del vestire i panni degli altri con le loro misure e caratteristiche, è qualcosa che non si studia. Si coltiva, si apprende, ma non ci sarà mai un certificato di comprovato raggiungimento, una pagella dei voti, men che meno un passaporto che attesti che siamo abili e arruolati a relazionarci empaticamente con gli altri.
E se da una parte le situazioni delicate come queste aiutano a scoprire persone deliziose, realmente capaci di entrare in connessione con noi, dall’altro è tutto un fiorire di dimostrazioni di quanto non siamo capaci di entrare nella vita degli altri con un passo delicato e le mani in tasca.
Abbiamo bisogno di dimostrare che il nostro punto di vista è quello migliore in assoluto, che abbiamo la visione reale di come stanno le cose e che stiamo facendo molta più fatica degli altri.
Noi sì che sappiamo, mica loro.
Noi che non possiamo uscire.
Noi che passiamo l’intera giornata a cucinare.
Noi che abbiamo figli.
Noi che non li abbiamo.
Noi che non sopportiamo la persona con cui viviamo.
Noi che viviamo da soli.
Noi che abitiamo in una zona troppo popolosa.
Noi che viviamo fuori dal mondo abitato.
Noi che questo.
Noi che quello.
Vorrei poter dire che si tratti di un comportamento generale ed equamente distribuito tra la popolazione, ma i commenti di questo tipo sentiti negli ultimi giorni provengono tristemente solo da donne, un fatto che esprime altrettanto tristemente quanto la mancanza di empatia, generalmente attribuita da secoli agli uomini, sia una componente più diffusa di quanto ci faccia piacere ( o comodo) credere.
In tutta onestà, la situazione attuale sta mettendo a dura prova le condizioni economiche e lavorative di molti nuclei familiari e le donne sono molto spesso le prime a essere penalizzate. Ma non è facendo paragoni con la situazione di altre donne che si esce da una situazione di crisi come questa.
Stiamo impostando una gara a chi sta peggio, un passatempo decisamente deludente, soprattutto quanto non tiene conto del fatto che giochiamo a carte del tutto squilibrate. Perché se è vero che conosciamo a menadito, anche fin troppo, la nostra situazione, non possiamo dire assolutamente lo stesso di quella altrui. I social hanno il potere terribilmente fantastico di farci mostrare agli altri quello che vogliamo, facendo permeare all’esterno un’immagine di noi drasticamente distante da quello che siamo, anche quando ci illudiamo di essere so real.
Ma il vestito che mettiamo in vetrina difficilmente entra a pennello sul nostro corpo anche quando è prodotto da noi, figuriamoci quello che ci viene cucito da altri sulla base di quanto credono di sapere.
Siamo fatti con lo stampino, visti dall’alto. Ma ognuno ha misure interiori totalmente diverse. E se impararle a memoria è un’impresa impossibile, usare il metro della gentilezza per conoscerle un po’ alla volta può essere una buona idea.