DI VIRGINIA BRANCATO, EMILIANO FERESIN, LINDA RAVAZZANO
L’aumento delle donne impegnate lavorativamente rende più che necessario rivedere le norme in materia di congedo parentale per entrambi i genitori e per i genitori unici. Per molte lavoratrici, decidere di diventare madri può essere un atto di coraggio: proprio per la mancanza di congedi parentali adeguati, molte madri sono spinte, inconsciamente o meno, a cambiare lavoro perché vengono discriminate da una normativa che non permette ai partner di poterle sostituire nella cura dei propri figli. Se un bambino si ammala e il padre non ha il diritto di un congedo retribuito, senza dubbio la scelta su chi dovrà restare a casa ad accudirlo ricadrà sulla madre. Su questo tema il Parlamento europeo e il Consiglio hanno emanato una Direttiva (la 2019/1158) relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Questa direttiva indica delle linee guida per bilanciare ritmi di lavoro e vita privata per diminuire il divario nel trattamento dei lavoratori e delle lavoratrici quando si trovano ad affrontare l’essere genitore.
I vari paesi europei hanno recepito in maniera disomogenea la direttiva europea con alcuni casi virtuosi mentre altri paesi rappresentano ancora un fanalino di coda per quanto riguarda il welfare familiare. Inoltre, una maggiore presenza dei padri nell’assistenza ai propri figli, se da un lato garantisce una reintegrazione delle madri nella vita lavorativa in modo meno traumatico e frenetico, dall’altra appiattisce il pregiudizio che molti datori di lavoro ancora hanno al momento di decidere se assumere una donna in età fertile o con figli ancora troppo piccoli per essere indipendenti.

Cosa succede in Italia?
Il Decreto Legislativo 105 del 2022 accoglie la direttiva europea e vuole tendere alla condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e promuovere la parità di genere in ambito lavorativo e familiare. Viene introdotta l’obbligatorietà del congedo di paternità, definendo 10 giorni lavorativi anche non continuativi che possono essere utilizzati dai due mesi precedenti la data presunta del parto sino ai cinque mesi successivi. Inoltre, per promuovere un uso più equilibrato dei congedi parentali (ancora utilizzati prevalentemente dalle madri), viene stabilita una ripartizione equa del tempo a disposizione di ogni genitore: tre mesi ciascuno da fruire entro i 12 anni del/la figlio/a più altri tre mesi da ripartire liberamente tra i genitori. Tuttavia, questa rimane un’opzione facoltativa. Uno dei problemi del congedo parentale è la questione retributiva: usufruire di questi giorni comporta una retribuzione al 30% molto spesso insostenibile per uno dei genitori che preferisce quindi lavorare e lasciare all’altro genitore la possibilità di usufruire di questi permessi.
Capita di frequente che i padri rinuncino al congedo parentale perché è più conveniente economicamente che lo prendano le madri, oppure utilizzano giorni di ferie per evitare la decurtazione dello stipendio.
Se 10 giorni sembrano pochi, bisogna ricordare che il congedo parentale obbligatorio per i padri è una conquista risalente ad appena dieci anni fa. Prima il congedo veniva concesso solo in caso di grave malattia o morte della madre. In aggiunta ai 10 giorni, i genitori possono poi ripartirsi 10 mesi entro i primi 12 anni di vita del bambino. Un neo abbastanza grosso nell’organizzazione del congedo è che l’INPS, delegato alla gestione dei giorni, spesso non offre una piattaforma di immediata comprensione per il calcolo dei giorni rimanenti da usufruire.
Tutte queste considerazioni sono più sostenibili quando si parla di contratti di lavoro statali o in aziende che hanno una politica contrattuale che si rifà ai contratti di lavoro nazionali. Per i lavoratori precari e soprattutto i lavoratori nella ricerca, molto spesso queste tutele cadono, portando ad una latente discriminazione delle lavoratrici, proprio perché spesso si ritrovano a conciliare vita lavorativa e vita privata in mancanza di una legislazione che dia anche ai padri la possibilità di prendersi cura del proprio figlio, con più permessi retribuiti come congedo parentale.
I virtuosi in Europa: il caso della Spagna
Probabilmente la pandemia di COVID-19 ha influito molto sulle scelte politiche di alcuni paesi relativamente alla cura e assistenza dei figli. Sondaggi e ricerche hanno dimostrato in modo lampante come, durante i periodi di smart-working obbligato, le madri sono state più penalizzate dei padri nella loro carriera proprio perché hanno dovuto contemporaneamente lavorare e seguire i propri figli (le ricercatrici, ad esempio, hanno potuto pubblicare meno dei colleghi maschi). La Spagna ha recepito il messaggio e dall’inizio del 2021 offre ai genitori la possibilità di usufruire di 16 settimane di congedo, non trasferibile e pagato al 100%. Entrambi i genitori hanno l’obbligo di utilizzare le prime 6 settimane subito dopo la nascita del bambino, mentre le altre 10 sono facoltative e possono essere utilizzate a tempo pieno o part-time. Un tale provvedimento aiuta le coppie a gestire in maniera più equilibrata i propri figli, offrendo ai padri la possibilità di prendere parte da vicino alla crescita del bambino. Dal punto di vista politico-sociale, un provvedimento del genere allontana lo spauracchio della discriminazione verso le donne che vogliono avere un figlio ma temono per il proprio lavoro perché sostiene l’uguaglianza di genere di fronte alla genitorialità. In termini pratici, per un datore di lavoro, assumere un uomo o una donna ha lo stesso peso se si riferisce all’assenza sul lavoro dovuta alla nascita e all’assistenza del bambino.
La politica della famiglia nel Nord Europa
Salta agli occhi durante un viaggio nei paesi scandinavi la presenza di papà che accompagnano i propri figli (spesso più di uno) in giro. La Svezia è uno dei paesi con i tassi di natalità più alti in Europa (quasi l’11% negli ultimi anni contro quasi l’8% dell’Italia) risultato di una politica di protezione della famiglia e dei bambini che vale il 3% del PIL (l’Italia ne investe solo 1.8% sotto la media europea). Tra le misure per la protezione della famiglia, il congedo parentale è strutturato in 12 mesi da condividere con l’obbligo di usufruire di almeno due mesi a testa. Questa suddivisione è quella che va nella direzione di maggior uguaglianza tra i generi perché non definisce di fatto congedo di paternità o maternità. La Finlandia ha una suddivisione uguale dei congedi mentre un po’ meno egualitaria sembra essere la Danimarca che prevede 52 settimane di congedo parentale ma solo 2 settimane per il papà.

Queste politiche ancora una volta tendono al benessere della famiglia e soprattutto migliorano le condizioni delle mamme lavoratrici. Infatti, l’assenza prolungata dal lavoro legata alla genitorialità riguarda spessissimo solo le madri che sono di fatto discriminate. Ancora oggi sebbene illegale, in molti colloqui di lavoro viene chiesto alle madri (e talvolta anche ai padri) se si hanno figli, se si ha in programma di averne a breve, generando ansia nel futuro e mettendo a rischio la serenità di prendere decisioni legate alla programmazione della genitorialità.
L’associazione “She is a scientist” ha deciso di lanciare un sondaggio rivolto ai padri lavoratori sia in Italia che in Europa per capire come viene percepito il congedo di paternità e parentale e soprattutto cosa bisognerebbe fare per migliorarlo, per promuovere il benessere della famiglia. Il sondaggio è ancora in corso, ma tre dati spiccano dalle risposte ottenute.
Un primo dato interessante su cui riflettere è il fatto che spesso molti padri rinunciano al congedo parentale o perché vivono con ansia l’allontanamento dal lavoro che potrebbe avere ricadute sulla progressione lavorativa, oppure per motivi economici, perché non conviene assentarsi dal lavoro se la retribuzione scende come nel caso dell’Italia al 30%. Inoltre, è importante notare come per la stragrande maggioranza (85%) è proprio l’ambiente di lavoro a fare maggiore pressione psicologica sul genitore in divenire per non prendere il congedo: datori di lavoro, superiori e colleghi hanno un’influenza negativa sulla scelta di usufruire o meno dei giorni di congedo. Rendere realmente obbligatorio il congedo di paternità, oltre i canonici 10 giorni, è dunque, come emerge dal sondaggio di “She”, un importante tassello per abbattere pregiudizi e resistenze: il congedo di paternità dovrebbe essere automatico e probabilmente dovrebbe scattare dalla data del parto della madre del bambino, con meno burocrazia e passaggi amministrativi che spesso rendono poco pratica la fruizione in un momento abbastanza impegnativo della propria vita. Lontano da slogan, la strada per una genitorialità più equilibrata e per una minore discriminazione delle madri-lavoratrici, deve necessariamente passare per una politica di welfare più sostenibile dove padri e madri sono supportati nella crescita dei figli con congedi, asili nido, e burocrazia meno intricata.