IMG_9809Nelle tasche del mio camice trovate di tutto. Penne, pennarelli colorati, spillette, elastici per i capelli, post-it a forma di freccia, monetine ed evidenziatori dai colori più sgargianti, perché non colgo i dettagli se non c’è un po’ di colore in quello che leggo. E’ un camice bianco, pulito, con qualche grinza qua e là, lungo, forse troppo, e discretamente aderente. Un camice perfetto. Ed è perfetto perché, in pratica, non lo uso mai. Da quando ho lasciato i palloni fumanti, i distillatori, i litri di solventi organici e le bottiglie di acido e ammoniaca sotto cappa, il camice è diventato, in tutta franchezza, ridondante, superfluo. Stringe, tiene caldo e, onestamente, mi è davvero poco utile. Come direbbero i chimici organici, quelli puristi che ho lasciato qualche anno fa, la chimica che faccio io è “da fighetti”.

Mi sono tolta il camice diverse volte, metaforicamente parlando. Dopo la tesi, dopo aver lavorato in farmacia e quando, durante un colloquio per una posizione da informatrice, il direttore di una azienda mi disse: “Dottoressa, se lo tolga questo camice, non le serve qui!”. Il camice a cui si riferiva era quello che indossavo nella foto sul curriculum, sicura al 100% che mi servisse: mi dava un’aria così professionale!

Sono stata la prima, io, a cadere nel tranello, con la convinzione che per dimostrare di valere qualcosa, per mostrare la mia conoscenza, dovevo avere un segno di riconoscimento. E cosa, meglio di un camice bianco immacolato, occhiali da vista e un arsenale di vetreria da laboratorio dietro di me?

labcoatOggi il camice non lo porto più. E’ appeso al chiodo, non solo metaforicamente. E, in tutta onestà, devo dirvelo: non è solo per comodità.

Ho capito che, sicurezza e protezione a parte, la mia professionalità passa e DEVE passare per altri canali e canoni che, possibilmente, non siano estetici. Sfido chi mi sta di fronte e mi vede per la prima volta ad aprire la propria mente e a smettere di chiedersi se quella con cui sta parlando è la segretaria del dipartimento, l’assistente del Prof. Taldeitali, la donna delle pulizie o una ricercatrice. Il percorso non è immediato, il traguardo non sempre facile, ma l’obiettivo rimane fisso.

Frasi come “non sembri una chimica”, “non hai la faccia da scienziata” o espressioni di stupore quando dico quello che ho studiato e su cui lavoro sono state pietre miliari nella mia crescita. Mi hanno fatto capire che, perché questo pregiudizio sia divelto, va sfidato apertamente e nella maniera più logica e naturale possibile: l’abitudine. Abitudine a vedere gli schemi e gli stereotipi fatti a pezzi e a fidarsi di scienziate che, per comodità, preferiscono la camicia al camice.

A chi chiede credenziali sulla mia esperienza rispondo che, prima ancora che scienziata, sono me stessa, con gli interessi, i rompicapi quotidiani e tutta la serie di elementi di entropia periodica senza i quali non sarei potuta arrivare dove sono. Il lavoro che svolgo passa anche e soprattutto dalla quotidianità e dal modo in cui la affronto, dove camice e occhiali, obiettivamente, servono molto poco. Quelli, semmai, servono a rendere accattivanti le foto su google quando cerchiamo la parola scienziato, punto. Al resto ci pensa la nostra cara vecchia forza d’animo.

Prima ancora che scienziate siamo donne.

 

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